Quando Harold Budd visitò il museo Marino Marini, in piazza San Pancrazio a Firenze, nella chiesa omonima, lo trovò quasi vuoto. L’allestimento era appena cominciato, pure il museo era aperto, e così ebbe modo di godere di un incredibile spazio vuoto, antico, colmo di risonanze eteriche, luci speciali, una autentica dimensione ultraterrena.

Tutto il lavoro di Harold Budd si realizza in questa dimensione, eppure le sue coordinate geografiche, le più amate così come quelle inevitabilmente ancestrali, sono ruvide e ostili, estreme.  Sono spesso queste condizioni estreme, marginali, irrilevanti ai più, che determinano una creatività sottile, mobile, che investiga un mondo potenziale, ancora da venire.

Il luogo in cui Harold Budd, da molti anni, ci conduce, è un mondo deserto, in cui è facile sentirsi inopportuni, e che ci impone un silenzio trascendentale, per quanto denso di vita in fermento. Ogni categoria storica, nel sud ovest degli stati uniti questo è quasi banale, diviene sottile, incongruente, mentre un arcaico e spaventoso senso di sradicamento ci pervade.

Che si possa reagire a tutto questo con una fantasia hollywoodiana e infantile diviene improvvisamente comprensibile, mentre tutto il nostro mondo si trasforma nello stesso deserto. Un’altra possibilità è quella suggerita da questa musica celeste: la polvere che costituisce il mondo che conosciamo può posarsi, mentre una vitalità nuovissima trova il suo posto alla luce.