Là, tout n’est qu’ordre et beauté, Luxe, calme et volupté. — Charles Baudelaire

Niente affatto astratto, questo lavoro è in realtà molto fedele al suo titolo, terrestre e materiale. Un disco amato e conosciuto e probabilmente pochissimo compreso. Non naturalistico ma onirico nel senso di incosciente radicamento nell’esistente, benchè privo di una qualunque memoria consapevole. Registrato tra New York, Ontario e Londra al volgere di un decennio in quello successivo, in compagnia delle menti migliori disponibili, questa raccolta di cartoline di un epoca non ancora pienamente vissuta, non ha niente o quasi a che spartire con l’opera degli innumerevoli oziosi che ha inspirato. Da qui, infatti, a causa dei soliti equivoci che saranno mercantili ma pure subculturali, una pletora di malintesi è discesa.

Radicalmente differente dalla reverié associata alla magica parola, inaugura la progettazione di un mondo differente, di un ambiente in cui finalmente poter vivere in modo naturale. Da me lungamente atteso, informato da mille anticipazioni inattendibili, riuscì dove i lavori precedenti, leggermente imprecisi e indecisi, mi avevano solo illuso. Rimarchevoli la lucidità progettuale fondata su un’economia di mezzi da manuale, sulla ridigestione di generi per la costruzione di un nuovo genere, destabilizzante e ameno, la perizia virtuosistica futurista, la sensazione generale di un’opera immensa anche quando gli eventi sono solo indistinguibili variazioni. Me ne nutro ancora, infilato com’è in qualunque archivio io mi trovi a rovistare.

Il lavoro di Brian Eno è rilevante per qualunque artista. Pochissimi altri, nel nostro mondo, si sono presi il carico di lavorare incessantemente sulla realtà del tempo e dello spazio come lui, a parte Roger Penrose, Stewart Brand, Will Wright, forse. Perchè questo mi pare il punto, qui perfettamente messo a fuoco ed in seguito esteso in un catalogo di lavori magari non sempre così rilevanti ma ugualmente corroboranti, esplicativi, esemplari. La teoria è semplice: non abbiamo bisogno di un patrimonio elementare ricchissimo, non abbiamo affatto bisogno di un vocabolario esteso, non abbiamo bisogno di strumenti speciali nè di competenze manuali eccezionali. Ciò di cui abbiamo bisogno sono spazi e tempi mentali di qualità.

La prima condizione in cui assestarsi è una atmosfera favorevole alla riflessione, alla meditazione, alla speculazione. Su questa necessità, per nulla banale, si articola l’opera, mai concettuale soltanto ma sempre concettualmente ricchissima, di Brian Eno. Ed è un tempo esteso il suo, estesissimo. Se adoperiamo un ambiente di riferimento fondato su una definizione di tempo più larga, infatti, ciascuna delle categorie più angoscianti cui siamo assuefatti cessa di rappresentare una minaccia attuale alla nostra esistenza, ciascuna prospettiva, se allargata nel tempo, perde il suo carattere eccessivamente minaccioso ed i nostri processi mentali seguono vie più adatte al respiro, meno piegate su pretesti di emergenza e coazione.

In ciascuna teoria dell’arte manca un assunto fondamentale: un opera d’arte, anche nella più maestosa delle forme (i quartetti di Beethoven, le campiture spaziali di Mondrian, le messe in scena di Samuel Beckett) nascono da molto poco, da una visione molto sfocata, da una articolazione balbettante. Dobbiamo fare i conti, nella percezione della nostra creatività individuale, con una mitologia deteriore e malamente esposta: crediamo che la maestria, e soprattutto il genio, si accompagnino a figure enormemente dotate, ad eroi della sapienza infusa baciati da chissà quali dei. Questi artisti, invece, ci hanno mostrato soprattutto l’enorme importanza di una incessante mole di lavoro attuale che, per quanto si porti via la grande parte della loro vita, nondimeno è carica di luce e gioia.

Quello che si sposta, abbastanza magicamente ma anche in modo del tutto ragionato ed ampiamente spiegato, nell’ascolto di queste opere è il nostro stesso punto di attenzione. Come in una meditazione di qualità profonda, come in un assorto abbandono estatico, la nostra capacità di mimesi con l’ambiente migliora incrementalmente. Ora se la funzione dell’arte può e quindi deve essere terapeutica, una considerazione è d’obbligo: ottenuta, pur se attraverso una sorta di continua e fluente educazione, una nuova qualità nella nostra capacità di attenzione ed attraverso questa una migliore disponibilità a sperimentare la gioia (o l’estasi) perchè dovremmo accontentarci di meno? Qualunque cosa pensiate di lui, dobbiamo tutti molto a Brian Eno.