Tanto è indebitata con John Cage, la musica di cui amiamo occuparci ( e con Karlheinz Stockhausen, Lamonte Young, George Russell) quanto potrebbe esserlo con quella dimensione iperspaziale a cui la musica blues appartiene naturalmente, nella misura in cui l’egotismo del centro palco viene accantonato in favore di un esercizio comunitario privo di solismi. Curiosamente è abbastanza comune, negli anni focali dello sviluppo di questo suono, un certo abbandono della figura del leader.

La condivisione delle responsabilità nel gruppo è un esercizio di politica economica promettente e fruttuoso, per quanto molto difficile da realizzare. Un buon gruppo d’azione adopera modi e comportamenti privi di eccessi individuali, ne condivide iniziative e potere di veto, in una competenza diffusa che è la vera sorgente dell’azione davvero ricreativa. L’opera d’arte davvero contemporanea implica pure la responsabilità dell’ascoltatore, chiamato a scegliere e distinguere da sè.

Può sembrare un po’ buffa la parola psichedelia, quarant’anni dopo. Buffo associare questi avventurosi bluesmen ad un senso della coscienza alterata, alla proiezione di mondi immaginari ed inediti sullo schermo della nostra cameretta. Eppure, eppure c’è stato un tempo in cui i quattro eroi di Us and Them dividevano camerini e fortune con Robert Wyatt e i suoi sodali, perfino prima che i concept album diventassero un buon affare.

Questo disco ha ripercussioni ovunque, a certificarne preveggenza e valore. Che l’immagine di una mente difforme da quella necessaria per i cruciverba del Times, preferiti dai manager della City, è ancora viva ed amata in Albione. Ed è proprio un buon lavoro in effetti, carico di suggestioni d’antan oltre che di innovazioni tecnologiche e compositive, che valse a questi giovanotti approvazioni e viatici da parte di pezzi grossi della musica classica-contemporanea, come forse si dice ancora in qualche scantinato di conservatorio.

Alcuni sentimenti amatissimi, dicevo, dalle menti alterate che si scuotevano nei rave di fine millennio e di cui ho raccontato altrove, hanno radici qui, in queste stratocaster lancinanti, in questi organetti elettronici mai sentiti prima, in questo drumming pervasivo e soft, nell’immagine di coperta, quanto di meno psichedelico e perfettamente tale, in effetti.

Poi venne il tempo delle opere rock, degli stadi e delle santificazioni mediatiche, un po’ per tutti in quel decennio in cui i manager discografici fecero fortune degne di assicuratori, venne la mitologia solo apparentemente interrotta dagli strali dei Pistols e dei Clash. Oggi mi rimane l’immaginetta di Lulubelle III che mi si rivolge interrogativa e non posso trattenere un sorriso. Altri tempi, meno scafati, altri spazi.